Anatocismo solo in opposizione al decreto ingiuntivo, non all’esecuzione.

Fonte:   laleggepertutti.it

Non si può più contrastare il pignoramento della banca, con l’opposizione all’esecuzione forzata, se oggetto della contestazione è la presenza di interessi anatocistici: infatti la sede appropriata per tale tipo di contestazione è l’opposizione al decreto ingiuntivo. L’importante chiarimento è stato offerto poche ore fa dalla Cassazione [1].

Tutte le volte in cui la banca notifica al proprio cliente un decreto ingiuntivo (il che avviene quando non è in possesso di un titolo esecutivo come, ad esempio, il contratto di mutuo, circostanza questa che le darebbe altrimenti la possibilità di procedere direttamente al pignoramento), la nullità dell’anatocismo deve essere sollevata nell’opposizione al decreto ingiuntivo. Troppo tardi è, invece, far decorrere il termine dei 40 giorni per tale opposizione e poi dolersi dell’anatocismo con una opposizione al pignoramento (cosiddetta opposizione all’esecuzione).

Pertanto, se il debitore ritiene che il contratto di mutuo contenga una clausola illegittima che comporti un calcolo eccessivo di interessi (il cosiddetto anatocismo o anche “capitalizzazioni trimestrale degli interessi”), deve sollevare la questione della nullità della clausola medesima nell’opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dalla banca: altrimenti poi si forma il giudicato e non è dunque più possibile proporla in sede di opposizione all’esecuzione.

Quanto all’onere della prova, la Cassazione spezza un’ulteriore lancia in favore della banca: per dimostrare la sussistenza del debito all’istituto di credito basta produrre in giudizio il contratto di mutuo stipulato davanti al notaio e la quietanza per dimostrare l’erogazione della somma. Spetta poi al cliente la prova contraria ossia la dimostrazione di aver restituito il prestito. Se la banca, quindi, produce nel proprio fascicolo di parte l’atto pubblico di erogazione e quietanza, tale circostanza fa piena prova che la somma è stata versata al mutuatario; sarà quest’ultimo a dover allora dimostrare di aver estinto il debito.

L’affitto per evitare il pignoramento della casa

Fonte:   laleggepertutti.it

Uno dei metodi che alcuni debitori utilizzano per evitare il pignoramento della casa è quello di darla in affitto: si tratta, nella gran parte dei casi, di simulazioni volte solo a scoraggiare il creditore. Difatti la legge stabilisce che, se il contratto di affitto è stato registrato prima della trascrizione dell’atto di pignoramento, può essere opposto al creditore procedente. Non che, quindi, l’immobile non possa essere pignorato e venduto, ma l’inquilino non potrà essere sfrattato dal nuovo proprietario il quale, pertanto, non potrà adibire l’immobile a propria abitazione.

 Il che, come facilmente si può comprendere, è un notevole deterrente alla buona riuscita dell’asta: chi mai acquisterebbe un immobile sapendo che, al suo interno, c’è un soggetto che potrebbe rimanerci magari per altri otto anni o che, in caso di mancato pagamento del canone, sarebbe difficile mandare via?   Peraltro anche se il padrone di casa non riesce a dimostrare che la locazione è anteriore, l’inquilino può rimanere in casa per altri sei anni. A riguardo leggi l’approfondimento “Locazione: immobile pignorato ma dentro c’è l’inquilino”.   La legge consente al creditore una tutela: l’azione revocatoria. Egli, cioè, potrebbe dimostrare che la locazione è stata solo il frutto di un accordo fraudolento tra proprietario di casa e inquilino al solo fine di resistere ai tentativi di pignoramento dell’immobile. Senonché non sempre è facile vincere questo genere di causa e una conferma viene da una recente sentenza del Tribunale di Padova [1]. Secondo tale pronuncia, perché possa vincere l’azione revocatoria, il creditore deve dimostrare che l’inquilino era a conoscenza del pignoramento dell’immobile a lui affittato. Diversamente egli non può chiedere la nullità del contratto di locazione a suo dire “simulato”.

Opposizione a decreto ingiuntivo: mediazione al creditore opposto

Fonte: laleggepertutti.it

Si consolida la giurisprudenza secondo cui l’obbligo di attivare la mediazione, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo, spetta al creditore opposto pena la revoca del decreto ingiuntivo: a prendere le mosse dalla sentenza della Cassazione dell’anno scorso – che, invece, aveva addossato l’onere sul debitore opponente – non c’è solo il tribunale di Firenze e il giudice di Pace di Taranto, ma anche il tribunale di Busto Arsizio [1].
L’intervento della Suprema Corte non è riuscito a definire il forte contrasto giurisprudenziale sull’obbligo della mediazione in caso di opposizione a decreto ingiuntivo. La questione continua a dividere i giudici e, soprattutto, a gettare incertezza tra le parti e i rispettivi avvocati. La posta in gioco è altissima. Infatti:


se si deve ritenere che l’attivazione della mediazione spetti al creditore opposto, il mancato esperimento del tentativo comporta la perdita di efficacia del decreto ingiuntivo e la definitiva liberazione del debitore dall’obbligo di pagamento;
se, al contrario, si deve ritenere che l’attivazione della mediazione spetti al debitore opponente, la mancata attivazione della mediazione comporta l’improcedibilità dell’opposizione e, quindi, la conferma definitiva (e non più contestabile) del decreto ingiuntivo.

Insomma, è proprio dalla soluzione di questo preliminare aspetto di procedura che dipende la sorte della causa. Sicché, come abbiamo già ribadito in queste stesse pagine, posta l’attuale incertezza, sarebbe auspicabile che fosse il giudice stesso, nell’ordinanza di rimessione delle parti innanzi all’organismo di mediazione, a esplicitare il proprio orientamento, specificando a carico di chi sia l’attivazione della mediazione.

A chi spetta le mediazione in caso di opposizione a decreto ingiuntivo

Il dubbio interpretativo relativo a sapere chi sia la parte onerata di attivare la mediazione obbligatoria nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo deriva dal fatto che la legge prevede che la condizione di procedibilità non si applica “nei procedimenti per ingiunzione, inclusa la fase di opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”. Non vi è dubbio che il creditore che chiede un decreto ingiuntivo non sia obbligato a tentare la mediazione prima del deposito del ricorso, ma dopo l’opposizione e la decisione sulla provvisoria esecutività chi è onerato di attivare (e partecipare) al tentativo di mediazione?

La Cassazione, l’anno scorso, seguita poi da numerosi tribunali [2] aveva ritenuto di dover accollare l’onere sul debitore opponente. E ciò perché, seppur nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il ruolo di attore sostanziale lo ha il creditore opposto, è vero che tale regola riguarda solo l’onere della prova e dunque la fase istruttoria. Nulla cambia invece per le fasi introduttive e preliminari al giudizio, tant’è che nessuno mette in dubbio che il contributo unificato lo debba pagare il debitore opponente.

Seguendo la linea della Suprema Corte, in caso di mancato assolvimento della condizione di procedibilità, il giudice deve dichiarare l’improcedibilità e il decreto ingiuntivo diviene definitivo e acquista efficacia esecutiva se non ne era già munito.

Opposta è la tesi del Tribunale di Busto Arsizio secondo cui la tesi della Cassazione è di “dubbia compatibilità” con il diritto alla difesa garantito dalla Costituzione, in quanto renderebbe la mediazione una sorte di sanzione nei confronti di chi agisce in giudizio e fa valere le proprie ragioni.

Ecco allora che il Tribunale conclude che nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, l’onere di attivare la mediazione incombe sul creditore opposto, “atteso che egli riveste la natura di parte attrice e che l’azione cui si riferisce la citata norma è la domanda monitoria, non già l’opposizione a decreto ingiuntivo emesso in accoglimento della stessa”.

Sfratto bloccato: necessaria la prova della mediazione

Fonte: laleggepertutti.it

Il padrone di casa che abbia iniziato lo sfratto contro l’inquilino moroso deve, in caso di contestazione da parte di quest’ultimo, avviare il tentativo di mediazione dopo la prima udienza. Diversamente, la procedura di sfratto si blocca e il locatore viene anche condannato alle spese legali. È quanto ricorda il tribunale di Mantova con una recente sentenza [1]. Nel caso di specie non era stata data prova della mediazione perché nessuno aveva depositato il relativo verbale di esperimento negativo, documentazione che andava esibita all’udienza successiva.

Come noto, il procedimento di sfratto inizia con un ricorso in tribunale depositato dal padrone di casa. All’udienza che ne consegue, l’inquilino può decidere di partecipare o non partecipare. Nel secondo caso, lo sfratto viene sempre confermato, sempre che vi siano le prove dell’inadempimento. Nel primo caso, invece il giudice può accordare – su richiesta dell’inquilino – un termine di 90 giorni (cosiddetto termine di grazia) per consentirgli di adempiere. In alternativa, sempre l’inquilino può opporsi allo sfratto e, in tal caso, inizia una causa ordinaria [2]. Ma prima dell’avvio del regolare iter giudiziale, il giudice è tenuto a ordinare alle parti di presentarsi innanzi all’organismo di mediazione, per tentare una soluzione bonaria della lite [3].

Necessaria la prova della mediazione

Nel caso di specie, il giudice ha chiuso il procedimento di opposizione allo sfratto perché nessuna delle parti aveva depositato il verbale di mediazione per dimostrare l’esperimento del tentativo di conciliazione. Dunque il giudice ha dichiarato l’improcedibilità della domanda di sfratto.

Non è quindi sufficiente adempiere all’ordine categorico della legge e del giudice di procedere in mediazione, ma è anche necessario darne prova esibendo il relativo verbale. In mancanza di ciò (ed è chiaro che l’interesse è tutto del locatore), il procedimento di sfratto si chiude.

Nel caso di specie le spese del processo sono state poste a carico del locatore, avendo questi, con la propria condotta, dato avvio al procedimento “senza poi compiere gli adempimenti necessari per la sua prosecuzione”. Quindi, anche se il termine per l’avvio della mediazione viene assegnato a entrambe le parti processuali, è evidente che la parte chiamata in giudizio (l’inquilino) può non avere alcun interesse alla prosecuzione dell’azione.

Finanziamenti per non bancabili garantiti dal fondo antiusura (famiglia)

Per accedere al Fondo e poter ottenere garanzie, il Ministero del Tesoro ha individuato alcuni criteri guida che dovranno seguire i garanti per valutare la meritevolezza del richiedente:

– Effettivo stato di bisogno del richiedente e serietà della ragione dell’indebitamento
– Capacità di rimborso del finanziamento concesso in base al reddito documentabile
– Entità dell’importo complessivo debitorio a carico del richiedente che deve rientrare entro i limiti di garanzia (Euro 30.000 circa da rimborsare in massimo 84 rate)

A chi si rivolge il Fondo e come fare la richiesta

Il Fondo si rivolge esclusivamente alle famiglie, non imprese, che si trovano in situazioni di difficoltà economica (sovraindebitamento) e che per questa difficoltà non sono più in grado di coprire con le loro entrate mensili tutte le spese necessarie per il sostentamento del nucleo familiare (vitto, fitto, rata del mutuo, bollette, spese sanitarie, ecc.).

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Rettifica valore immobili: quando l’Agenzia delle Entrate perde

Fonte:  laleggepertutti.it

Nel ricorso contro la rivalutazione dell’immobile operata dall’Agenzia delle Entrate, il fisco perde se fonda tutta la propria tesi sulle sole quotazioni Omi (Osservatorio del Mercato Immobiliare) ai fini dell’individuazione del valore venale di commercio della casa; sono necessari anche ulteriori elementi.

È appena passata una settimana dalla circolare cui cui l’Agenzia delle Entrate ha ridisegnato le strategie nel contrasto all’evasione fiscale e, tra queste, anche le modalità per operare la rettifica sul valore degli immobili (leggi la nostra guida sugli “Accertamenti immobiliari”). In tale documento, l’amministrazione finanziaria predica a sé stessa di non limitare l’indagine al confronto tra il valore dichiarato nell’atto di compravendita e le quotazioni Omi, ma di “andare oltre”, effettuando accessi sul luogo ed, eventualmente, anche all’interno dell’abitazione (fermo restando il rispetto delle garanzie del contribuente).

Le quotazioni OMI

Se la stessa Agenzia delle Entrate ha diramato tali raccomandazioni ai propri uffici è perché, forse, più di un fondo di verità deve esserci nella violazione di detta regola comportamentale. E a confermarlo è, ancora una volta, l’attentissima Commissione Tributaria Provinciale di Milano in una recente sentenza [1]. I giudici tributari hanno infatti stabilito che le quotazioni dell’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia delle entrate rappresentano solo il dato iniziale ai fini dell’individuazione del valore venale in comune commercio, per cui non possono essere usate, da sole, a fondamento della pretesa del fisco, ma necessitano sempre di ulteriori elementi di prova. E ciò benché costituiscano un punto di riferimento importante perché derivanti da puntuali analisi.

Insomma, non si tratta di una completa bocciatura, ma di una presa di coscienza circa l’insufficienza di tali dati, spesso utilizzati dal fisco come “oro colato” (sempre però quando si risolvono a danno del contribuente). Gli atti di accertamento fiscale relativi alla rettifica del valore degli immobili si basano, infatti, sempre più spesso su accertamenti “a tavolino”, effettuati dai funzionari senza mai essersi recati sul luogo, a volte tenendo conto delle fotografie reperite dal satellite di Google. Facile così rilevare scostamenti tra il valore dichiarato nell’atto di compravendita e il valore di mercato che l’ufficio ha desunto dalla banca dati delle quotazioni immobiliari; scostamenti però che non corrispondono alla situazione reale, a detta della CTP milanese.

Ci sono tanti altri valori di cui l’Agenzia deve tenere conto, valori che vanno desunti da circostanze di fatto come l’effettivo stato del singolo immobile, la crisi del mercato immobiliare, l’eventuale calo delle quotazioni del tipo di immobile oggetto dell’accertamento.

Confronto con altri immobili

Nella circolare dell’Agenzia delle Entrate, richiamata in apertura di questo articolo, viene suggerito agli uffici territoriali di riscontrare il valore dell’immobile con trasferimenti a qualsiasi titolo o su eventuali perizie giudiziarie, anteriori di non oltre tre anni alla data dell’atto, che abbiano ad oggetto l’immobile sottoposto a controllo. Il contribuente, ai fini della propria difesa, dovrà verificare se il confronto eseguito dall’ufficio sia pertinente o meno. Occorrerà così che siano forniti (o eventualmente allegati) gli atti o le informazioni riguardanti gli immobili paragonati, al fine di riscontrare la somiglianza delle caratteristiche.

Le caratteristiche dell’edificio

Il fisco deve poi verificare lo stato effettivo dell’immobile tramite un sopralluogo o con strumenti informatici (banche dati, internet, ecc.). Lo stesso atto di accertamento deve contenere le motivazioni circa le caratteristiche riscontrate e il contribuente potrà rilevare eventuali errori in tal senso. In assenza di tale controllo diretto, si potrà eccepire una carenza di prova, dato che la circolare ha previsto tale riscontro necessario «in ogni caso».

L’accesso all’immobile

L’Agenzia suggerisce di effettuare – nel rispetto della privacy del contribuente – l’accesso diretto presso l’immobile o l’azienda per i quali è necessaria la valutazione, verificando così in loco le caratteristiche dei beni. È necessaria l’autorizzazione della Procura (che però può essere rilasciata soltanto se sussistono di gravi indizi di violazioni delle norme tributarie). Ne consegue che nell’ipotesi in cui i verificatori accedano presso l’abitazione del contribuente in assenza dell’autorizzazione o degli indizi di evasione, gli elementi acquisiti non potranno essere utilizzati per supportare la rettifica di valore, per il principio di invalidità derivata dell’atto.

La rinuncia all’eredità può essere revocata dal creditore

Fonte:  laleggepertutti.it

Il debitore non può rinunciare all’eredità se, con tale scelta, anche se fatta senza alcun intento fraudolento, finisce per pregiudicare le aspettative dei suoi creditori. A questi ultimi, pertanto, è consentito agire in tribunale con la cosiddetta azione revocatoria: essa ha lo scopo di rendere senza effetti la predetta rinuncia e poter così pignorare i beni dell’eredità, onde soddisfare i propri diritti di credito. A ricordarlo è una recente sentenza della Cassazione [1].


La rinuncia all’eredità fatta dal debitore – si legge nel provvedimento – può essere impugnata e resa, così, priva di effetti se determina un “danno sicuramente prevedibile” ai suoi creditori. Tale previsione, del resto, è contenuta nello stesso codice civile in modo inequivoco e chiaro: “Se taluno rinuncia, benché senza frode, a un’eredità con danno dei suoi creditori, questi possono farsi autorizzare (dal tribunale) ad accettare l’eredità in nome del rinunciante, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti”.

Il giudice revoca la rinuncia all’eredità se vi sono fondate ragioni per ritenere che i beni personali di quest’ultimo possono non risultare sufficienti per soddisfare del tutto i suoi creditori. Infatti, l’accettazione dell’eredità rappresenta sempre un incremento del patrimonio del debitore su cui i creditori possono soddisfarsi attraverso il pignoramento. Il che peraltro implica che la rinuncia all’eredità fatta dal plurindebitato al solo scopo di lasciare insoddisfatti i suoi creditori è un atto pienamente impugnabile.

Nel caso di specie, un fallito aveva rinunciato all’eredità di un proprio familiare perché consapevole del fatto che, se avesse accettato, i beni sarebbero finiti nelle mani del curatore che li avrebbe venduti; invece, rinunciandovi, detti beni sarebbero andati in favore di altri parenti e, quindi, rimasti comunque “in famiglia”. Una scelta che la nostra legge non condivide e ritiene che possa essere revocata se lo vogliono i creditori. Il motivo è chiaro: dato che la rinuncia all’eredità finisce per danneggiare il creditore dell’erede, che così non può beneficiare dell’incremento del patrimonio del suo debitore, la legge autorizza il creditore medesimo ad accettare l’eredità in nome e in luogo del rinunziante – senza quindi che il creditore impugnante divenga un erede – al fine di soddisfarsi lui stesso sui beni ereditari.

Per poter ottenere la revoca della rinuncia all’eredità, il creditore deve rispettare due presupposti:

deve agire entro massimo cinque anni dalla rinuncia (pena la perdita di tale diritto);
deve dimostrare un danno sicuramente prevedibile, cioè che il patrimonio personale del debitore non basta a soddisfare i crediti e l’eredità presenta un attivo.

Per tornare al caso precedente, la dichiarazione di fallimento costituisce un elemento tale da far ritenere altamente verosimile che il patrimonio del debitore, dato l’acclarato stato di insolvenza, non sia sufficiente a fare fronte a tutte le pretese creditorie.

Se non riesco a pagare le rate a Equitalia: che fare

Fonte: laleggepertutti.it

Anche pagando a rate, non sempre è facile estinguere un debito con Equitalia: così, non poche volte, chi ha ottenuto la dilazione dei debiti riportati sulle cartelle di pagamento (più propriamente chiamata rateazione), è costretto poi ad abbandonare il piano, esponendosi nuovamente al rischio di pignoramenti, ipoteche o fermi auto. Come noto, infatti, per le rateazioni successive al 22 ottobre 2015, si decade dal beneficio della dilazione in caso di mancato pagamento di cinque rate anche non consecutive, mentre per quelle anteriori al 22 ottobre 2015 vale ancora il vecchio limite delle 8 rate non necessariamente consecutive.

Chi, peraltro, ha ottenuto la rateazione dopo il 22 ottobre 2015 e sia decaduto per mancato pagamento di cinque rate, può sempre essere riammesso a tale beneficio se versa, in un’unica soluzione, tutte le rate scadute, dandone prova a Equitalia. In tal modo ci si può “rimettere in carreggiata” e il nuovo piano di dilazione viene ripartito nel numero massimo di rate non ancora scadute alla stessa data.
A parte quest’ultima soluzione c’è sempre la possibilità, per chi non ce la fa a pagare la rateazione a causa di un peggioramento della situazione di obiettiva difficoltà (temporanea o grave), di richiedere – sia per la rateazione (ordinaria o straordinaria) già concessa – la proroga per un ulteriore periodo ordinario di 72 rate o straordinario di 120 rate, se ricorrono le condizioni individuate per le rispettive rateazioni.

La proroga viene quindi concessa solo a condizione che si dia prova a Equitalia del peggioramento della situazione economica.

La proroga può essere richiesta una volta sola e può prevedere, su richiesta del contribuente, rate di importo variabile e crescente per ciascun anno, anziché un piano a rate costanti. Se non è accolta la richiesta di proroga straordinaria, il debitore può comunque richiedere quella ordinaria.
La presentazione dell’istanza non sospende eventuali procedure esecutive già in corso: per bloccare, infatti, eventuali pignoramenti è necessario che sia intervenuta l’autorizzazione definitiva.

Nel caso di altri carichi scaduti, non interessati da precedenti provvedimenti di rateazione di cui è chiesta la proroga, l’istanza non può essere concessa se non dietro il pagamento o la rateazione di tali cartelle.

Come presentare l’istanza di proroga della dilazione

La domanda di proroga segue le stesse regole previste per la prima domanda di rateazione, variando quindi in base al debito complessivo:

– per debiti fino a 50.000 euro è sufficiente presentare domanda motivata;

– per debiti oltre 50.000 euro la situazione di difficoltà economica va provata e viene valutata in base all’importo del debito e ai documenti idonei a rappresentare la situazione economico-finanziaria del contribuente. In particolare, la situazione è diversa a seconda che il contribuente sia o meno una persona fisica:

persone fisiche: le persone fisiche o titolari di ditte individuali in contabilità semplificata attestano il temporaneo peggioramento della situazione di obiettiva difficoltà mediante la presentazione di un nuovo modello ISEE di valore inferiore rispetto a quello presentato per la prima rateazione o, in caso non sia trascorso il termine di validità annuale dello stesso, mediante la sola documentazione attestante eventi posteriori che hanno determinato una radicale modifica della situazione reddituale e patrimoniale;
soggetti diversi dalle persone fisiche: le società di capitali, gli enti, le società semplici e le ditte individuali in contabilità ordinaria attestano il temporaneo peggioramento presentando una situazione economico patrimoniale aggiornata da cui risulti che l’Indice di liquidità è inferiore rispetto al precedente. L’Indice Alfa determina il numero massimo di rate concedibili.

Le banche svenderanno gli immobili pignorati prima della riforma

Fonte e approfondimenti: laleggepertutti.it

Si applicheranno anche ai pignoramenti immobiliari già in corso le nuove regole, entrate in vigore ieri, che conferiscono alle banche super poteri: grazie infatti alla riforma contenuta nel decreto legge [1] voluto fortemente dal Governo Renzi per porre fine alla crisi del sistema creditizio, gli istituti di credito potranno acquistare, a prezzi scontati, gli immobili che loro stessi hanno pignorato negli scorsi anni e messo all’asta.
Sono tre, in particolare, gli aspetti destinati a sconvolgere le regole su cui, fino ad oggi, si sono basate le aste giudiziarie, aspetti che, peraltro, desteranno seria preoccupazione per chi, non essendo riuscito a pagare il mutuo, ha in corso una procedura espropriativa.


Riduzione a metà del valore dell’immobile

La riforma consente, innanzitutto, al giudice di disporre, dopo i primi tre esperimenti di vendita andati deserti, un quarto con riduzione di un mezzo della base d’asta. Per comprendere l’impatto della nuova norma, è bene ripercorrere le regole principali delle esecuzioni immobiliari.
Tutte le volte in cui un immobile viene pignorato, il giudice procede alla vendita coattiva; se agli esperimenti d’asta non si fa vivo alcun offerente, il tribunale ne dispone una successiva riducendo di 1/4 il prezzo di vendita. Da oggi in poi, però, se entro i primi tre tentativi il bene non viene aggiudicato, il giudice ne dispone un quarto e, per rendere più allettante la partecipazione, decurta della metà il prezzo di vendita.

Ebbene, la riforma dice che, ai fini del conteggio dei tre esperimenti d’asta, si considerano anche le vendite effettuate prima dell’entrata in vigore del decreto. Quindi, per tutti gli immobili che, in questi anni, sono stati oggetto di un pignoramento immobiliare, con varie aste andate deserte, verrà disposto un ulteriore (e ultimo) tentativo dove, però, la base d’asta non verrà ridotta più del 25% rispetto alla precedente, ma addirittura del 50%. Insomma, una vera e propria svendita, considerando che già molte procedure esecutive hanno raggiunto una svalutazione notevole del valore dell’immobile, rispetto a quello di mercato.

La banca potrà partecipare con proprie società controllate

La seconda norma, che va letta in relazione alla precedente e fa comprendere come tutto l’assetto della riforma sia stato studiato appositamente per le banche, consente a queste ultime di partecipare all’asta riservandosi, in un secondo momento, di indicare il nome di un terzo soggetto, effettivo acquirente. Le banche parteciperanno così alle vendite, ma poi potranno intestare l’immobile a una società da queste controllata o facente parte del medesimo gruppo (cosiddetta “assegnazione in favore di terzo”).
Non è un mistero che molti istituti di credito abbiano già creato, negli scorsi anni, apposite società immobiliari proprio con lo scopo di piazzare di nuovo sul mercato gli immobili prima finanziati. Il che significa che, grazie a questo meccanismo, la banca, nel giro di solo quattro aste, potrà ottenere la proprietà della casa sulla quale ha acceso l’ipoteca per il mutuo ipotecario.

Uno sconto fiscale del 9%

Ultimo, e non minore, regalo alle banche – ma a pagarlo saranno, questa volta, tutti i contribuenti – è uno sconto fiscale del 9%. Il nuovo decreto, infatti, stabilisce che, se l’immobile acquistato all’asta viene rivenduto nel giro di un anno, l’aggiudicatario (la banca) non paga l’imposta di registro (pari appunto al 9%) ma, in luogo di essa, versa un’imposta fissa di 200 euro. Il che, su un bene del valore di 200mila euro significa un risparmio d’imposta di ben 18 mila euro. Un regalo che peserà, ovviamente, sul fisco italiano e che, quindi, verrà spalmato sulla collettività.

La retroattività

Come detto, la cosa più sconcertante di tutto questo meccanismo è la sua retroattività. L’applicazione della regola del “quarto esperimento d’asta, con riduzione del 50% del prezzo di vendita” vale anche per tutti i pignoramenti che, negli scorsi anni – prima cioè dell’entrata in vigore del decreto legge – hanno già visto andare deserti tre tentativi d’asta. Il che pone seri problemi di costituzionalità della riforma.

Cambia l’atto di pignoramento: il nuovo contenuto

Fonte:  laleggepertutti.it

Con il nuovo “decreto banche” [1] cambia il contenuto dell’atto di pignoramento che deve contenere un nuovo avvertimento per il debitore. Tutto nasce dalla riforma dell’art. 615 cod. proc. civ., relativo all’opposizione all’esecuzione, da cui è bene partire.

Secondo il nuovo testo dell’art. 615 cod. proc. civ., l’opposizione all’esecuzione per espropriazione è inammissibile se viene presentata dopo che il giudice abbia disposto la vendita o l’assegnazione del bene pignorato. Si tratta, dunque, di una causa di decadenza che dovrebbe ridurre il contenzioso e accelerare i tempi per eventuali opposizioni. Questa regola è suscettibile di una sola eccezione: l’opposizione, infatti, può essere ugualmente proposta oltre il termine appena indicato solo nel caso in cui sia fondata su fatti sopravvenuti o se l’interessato dimostri di non aver potuto proporla tempestivamente per causa a lui non imputabile.


Di qui la modifica del contenuto dell’atto di pignoramento che deve dare atto di tale nuova preclusione. La nuova norma, infatti, stabilisce che l’atto di pignoramento deve contenere l’avvertimento che, a norma del nuovo art. 615, secondo comma, terzo periodo, l’opposizione è inammissibile se è proposta dopo che è stata disposta la vendita o l’assegnazione del bene pignorato a norma degli articoli 530, 552 e 569, “salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti ovvero che l’opponente dimostri di non aver potuto proporla tempestivamente per causa a lui non imputabile”.

La riforma contiene anche una vera e propria rivoluzione per quanto riguarda i tempi dei pignoramenti immobiliari, prevedendo un numero massimo di tre aste dopo le quali la procedura viene chiusa dal giudice: per approfondimenti leggi “Esecuzioni immobiliari: il pignoramento finisce dopo 3 aste”.